diLuigi
Brigante- “Recentemente ho ricevuto una segnalazione da un mio conoscente,
malato di reumatismi e tendinite alle spalle, con notevoli difficoltà di
deambulazione delle braccia, il quale mi ha confidato che in centro di terapia
del dolore, nella nostra Regione, presso il quale si cura gli ha imposto
l’effettuazione del tampone nasofaringeo certificato da una struttura privata
al fine di poter usufruire delle cure essenziali di cui egli ha bisogno
regolarmente a cadenza bimestrale. Ancora più curioso è il fatto che circa
un mese prima egli si recò nella stessa struttura per la visita preliminare
alla terapia, ma senza alcuna limitazione; se non l’uso della
mascherina. Ancora più strano è sapere che persino nel milanese, da fonte
certa, in molte strutture pubbliche non si richiede più nemmeno la compilazione
del modulo attestante di non avere sintomi o di non essere stato a contatto con
nessun positivo. Senza contare il fatto che in nessuna struttura privata
regionale si richiede il tampone per poter ricevere una prestazione sanitaria,
giacché le paghiamo anche profumatamente. Ebbene, questo strano
protocollo, dopo una lunga indagine, è realmente esistente e non uniforme in
quanto consente a discrezione delle strutture richiedere o meno il
tampone. Questa prassi potrebbe risultare potenzialmente grave in
prospettiva ed è necessario porsi delle considerazioni logico-pratiche molto
basilari:
1. Perché demandare i tamponi ad appannaggio di un privato e a danno del pubblico?
2. Perché richiedere il tampone al paziente
nonostante il personale sanitario si presume essere vaccinato e con l’obbligo
dell’uso della mascherina?
3. Perché le strutture private non
richiedono mai il tampone in luogo di una prestazione?
Sugli aspetti sanitari lungi da me inoltrarmi in quanto profano, anche se trovo la situazione paradossale giacché la logica ci fa desumere la presenza di un trattamento fortemente differenziato e ingiustificabile tra pubblico e privato, con notevoli vantaggi in capo a quest’ultimo e parallelamente a danno della sanità pubblica per mancati introiti e mancate prestazioni gratuite a favore degli aventi diritto. Infatti, far ricadere il costo del tampone in modo indiscriminato a tutti gli utenti produce lo stesso effetto dell’imposta IVA: un costo lineare, irragionevole e non tenente conto della progressività reddituale (principio costituzionale), con effetti importanti sul portafoglio dei cittadini soprattutto durante questa forte crisi economica nella quale taluni hanno perso il lavoro. In questa fattispecie troviamo un conflitto tra due applicazioni dello stesso principio: diritto ad avere una prestazione sanitaria e tutela della salute collettiva mediante il tampone. Ciò richiederebbe un bilanciamento delle esigenze secondo i canoni della ragionevolezza altrimenti si va a finire nella totale discriminazione. O si diversifica il trattamento, rendendolo gratuito per le fasce deboli oppure non lo si richiede affatto. Le conseguenze di questa prassi scellerata potrebbero essere devastanti in futuro, e se ragioniamo in termini più prospettici e alternativi potrebbe anche essere un pratica persuasiva per indurre e costringere le persone a vaccinarsi, per cui ancora non v’è obbligo espresso ex lege, ritenendo tale possibilità molto più conveniente che spendere 50 euro per un tampone ogniqualvolta venga richiesto, poiché il vaccino diverrebbe un lasciapassare universale. Non è affatto uno scenario inverosimile e tanto distante dalla realtà. Già molti politici, in modo trasversale, hanno manifestato l’idea di applicare il passaporto vaccinale digitale nel nostro Paese, sulla stregua del modello israeliano, quale condizione di accesso per ogni tipo di servizio e luogo pubblico. E, notizia fresca, in Inghilterra si sta pensando seriamente di usare questo passaporto impedendo l’accesso nei luoghi pubblici a chi fosse positivo o non vaccinato. Le implicazioni etiche e di diritto sono molteplici. Sicuramente, a Costituzione - diciamo FORMALMENTE - vigente questa pratica non sarebbe possibile per svariati motivi, tra cui la lesione della libertà di circolazione, di autodeterminazione, nonché la discriminazione indiretta che si creerebbe tra vaccinati e non, negando loro anche la fruizione di prestazioni e diritti essenziali. Effettivamente, questa prassi della sanità potrebbe essere una delle tante tappe di avvicinamento a questo modello che farebbe leva sul nostro stato di bisogno pur di accettare un trattamento che non è obbligatorio nella sostanza, col rischio di creare una nuova apartheid tra vaccinati e non. Né più né meno. Una prassi che fotografa lo stato di una sanità calabrese ( ma anche nazionale) malata e clientelare, commissariata da decenni senza successi e con tanti tagli e disagi.
Basterebbe
pensare che negli ultimi dieci anni, a livello nazionale, in media sono stati
tagliati 37 miliardi di euro in sanità quale avanzo primario, cioè il 5% del
PIL nazionale, con una spesa attuale dell’8% del PIL a fronte del 10% della
Germania e del 17% degli Usa. Tradotto, sono anche 100 mila posti letto (in
media) tagliati, nello specifico 3 posti letto ogni 1000 abitanti per un totale
di 10 medici ogni 1000 abitanti; nonché più della metà dei posti di terapia
intensiva, passati da 30 mila a 15 mila scarsi in 10 anni (dati del Fonte
Annuario Statistico SSN). Numeri che suscitano solo rabbia e incredulità,
ma che devono spingere ad una riflessione anche politica, poiché in questo anno
pandemico non è stato implementato nulla in modo considerevole per permettere a
più persone di curarsi (dal covid e da altro) senza far collassare gli ospedali
e quindi incidendo giocoforza sulle decisioni del CTS in merito
all’attribuzione della fascia epidemiologica di riferimento. Tagli
che hanno avuto come riflesso maggiori disagi e servizi carenti per noi
contribuenti, soprattutto in Calabria. Solo il tempo, come sempre, ci darà
le giuste risposte eccetto per chi già le conosce."